Il vintage si fa spazio negli armadi: cresce, infatti, la moda di seconda mano. Il suo successo ha prima di tutto ragioni economiche, ma non solo, c’è anche una questione ambientale. Sì, perché l’industria della moda (specie quella usa e getta o poco più) ha un impatto enorme in termini di risorse ed emissioni. Oltre a ottimizzare i processi, comprare vintage (e quindi produrre meno) può essere un tassello verso un settore più green.
L'ascesa del second hand
Un report pubblicato nel 2023 da ThredUp – piattaforma statunitense che si occupa proprio di vendere abiti di seconda mano – stima che nel 2024 il mercato globale del vintage raggiungerà i 230 miliardi di dollari, per toccare poi i 350 miliardi nel 2028. Secondo questa previsione, la moda di seconda mano dovrebbe crescere a un ritmo triplo rispetto al settore nel suo complesso, arrivando a valere circa il 10% del totale.
Ormai più della metà dei consumatori (il 52%) compra usato. Una percentuale che sale al 65% tra Millennials e Gen Z (cioè tra i più giovani). A contribuire all’ascesa sono le piattaforme online, che hanno reso più agevoli gli acquisti vintage. Tra coloro che hanno comprato indumenti usati, due su tre lo hanno fatto sul web, dove molte piattaforme consentono agli utenti di entrare in contatto in modo diretto.
Perché si compra vintage?
Ma perché si compra di seconda mano? La priorità – spiega il report – è la ricerca di buoni affari: si prova a spendere meno. È quindi probabile che la spinta di questi anni sia stata dovuta – almeno in parte – all’inflazione che ha colpito tutto il mondo occidentale. Ma non c’è solo questo. Si opta per il vintage perché gli appassionati sono alla ricerca di pezzi unici, che possano arricchire in modo originale il proprio guardaroba.
La terza ragione che spinge verso l’usato intreccia le prime due: il vintage viene reputato una buona opzione per acquistare capi e brand che i consumatori non potrebbero permettersi al prezzo del nuovo. C’è inoltre, soprattutto tra i più giovani, una ragione ambientale: la moda di seconda mano è un modo per contribuire alla sostenibilità del settore. Come mai?
Economia circolare vs fast fashion
Secondo uno studio pubblicato nel 2020 da Nature Reviews Earth & Environment, l’abbigliamento sarebbe il secondo settore più inquinante al mondo, alle spalle della sola aviazione. La moda sarebbe responsabile dell’8-10% delle emissioni di CO₂.
Il problema riguarda, prima di tutto, la produzione. Secondo stime Agenzia europea dell'ambiente, i consumi medi annui di un cittadino UE nel campo dell’abbigliamento equivalgono a 400 metri quadri di terra, 9 metri cubi di acqua, 391 chilogrammi di materiale grezzo. Per un’impronta di carbonio complessiva di 270 chilogrammi.
Il vintage e più in generale l’usato si contrappongono alla produzione di nuovi vestiti, specie nel cosiddetto fast fashion. Con questa espressione si indica quella produzione di medio-bassa qualità, a prezzi contenuti, che massimizza le vendite ma riduce i tempi di uso e rende molto complicato il riuso o il riciclo.
La produzione, infatti, è senza dubbio il passaggio più costoso dal punto di vista ambientale. Ma c’è anche un tema di filiera post-vendita. Greenpeace sottolinea che il 25% dei capi prodotti resta invenduto, che solo l’1% viene riciclato e che ben l’80% dei vestiti e delle calzature finisce in inceneritori o discariche, spesso nel Sud del mondo, poiché il riciclo tessile è poco diffuso.
Alcune emissioni, come ad esempio quelle legate al trasporto, non possono essere eliminate neppure dal mercato second hand. L’usato ha però il merito di valorizzare i prodotti di qualità (perché tendono a durare nel tempo), di limitare la sovrapproduzione di abiti e di promuovere un modello di consumo circolare. Il suo impatto ambientale – oltre che economico – dipenderà dalla capacità di guadagnare ampie fette del mercato complessivo della moda.