Guida ai dazi: definizione, storia ed effetti

Mercati e investimenti
Dalle guerre commerciali all’effetto domino fino all’e-commerce. Le imposte sulle importazioni sono molto più di un incasso fiscale. Ecco perché.
Cosa sono i dazi doganali e come scatenano guerre commerciali

I “dazi doganali” sono un’espressione che sembra rimandare a una geopolitica antica. Se è vero che la loro distribuzione è cambiata in modo radicale negli ultimi cinquant’anni, è anche vero che si tratta di strumenti più che mai attuali.

Cosa sono i dazi doganali?

La definizione di dazi doganali è semplice, la loro applicazione spesso molto complessa. Si tratta infatti di imposte indirette applicate sulla quantità o sul valore di beni che attraversano un confine.

In alcuni casi (minoritari) i dazi sono “in uscita”. Succede, ad esempio, nel caso di Stati poveri o in via di sviluppo ricchi di risorse naturali ambite dai Paesi più sviluppati: una sorta di sovrapprezzo con cui ammortizzare il costo di un sovrasfruttamento. Nella maggior parte dei casi, però, i dazi sono “in entrata” e si applicano cioè ai beni importati. 

L’effetto immediato è un potenziale incasso fiscale. Ma l’introduzione dei dazi e la loro entità rappresenta molto altro: sono un disincentivo ad acquistare oltreconfine, nel tentativo di favorire le imprese domestiche, penalizzare quelle di un altro Paese o arginare distorsioni commerciali.

Breve storia delle dogane

L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ha ripercorso la storia dei dazi in un saggio firmato da

Antonio Nicali e curato da Giuseppe Favale. Il sistema doganale era già in auge ai tempi dei Romani, che lo avevano mutuato dai Greci.

Il Medioevo e la sua frammentazione territoriale e politica si tradusse in frammentazione doganale. I dazi venivano imposti non solo tra “Stati e Staterelli” ma anche tra Comuni. Si praticavano, spiega il saggio, due tipologie di imposte: sugli scambi e sul transito. Le prime erano più vicine all’idea attuale dei dazi; le seconde, di entità più contenuta, non riguardavano – come dice la parola stessa - l’importazione ma il passaggio delle merci su un territorio. 

Con la proclamazione del Regno d’Italia, nel 1861, anche la dogana diventa unica, replicando le tariffe che fino a poco prima erano state in vigore nel Regno di Sardegna. Il passaggio dall’assetto nazionale a quello comunitario avviene nel 1968, con l’istituzione dell’Unione doganale dell’Unione europea. Gli Stati membri smettono di applicare dazi alla circolazione interna delle merci, varando una tariffa condivisa per i beni provenienti da Paesi terzi.

Dai dazi alle guerre commerciali

Non serve andare al tempo dei romani per scoprire che è tutto cambiato. Oggi le catene di approvvigionamento sono globalizzate e le filiere produttive si intrecciano. Ci sono Paesi che basano la propria economia sulle esportazioni e altri che sono costretti a importare materie prime o componenti. In parole povere: i dazi non sono solo un’imposta ma diventano il tassello di un domino. Va infatti ricordato che l’imposizione di un dazio può portare alla reazione del Paese che lo subisce, con conseguenze negative sulla bilancia commerciale. Nel caso le parti coinvolte si irrigidissero, infatti, potrebbe verificarsi un rallentamento complessivo degli scambi, che non è conveniente per nessuna delle parti coinvolte.   

Facciamo un esempio. Gli Stati Uniti, a partire dalla prima amministrazione Trump e poi con Biden, hanno spinto sui dazi contro la Cina, accusata (più o meno apertamente) di pratiche commerciali scorrette. L’obiettivo era incassare dalle importazioni e incentivare le aziende americane a rivalutare la possibilità di produrre in patria. Il prezzo dei beni cinesi, di fatto, si alza. Ma ci sono due controindicazioni:

  1. Se la Cina impone dazi in direzione contraria su alcune merci, le imprese statunitensi rischiano di perdere quote in un mercato importante come quello asiatico.
  2. Se il peso dei dazi è alto, le stesse imprese americane rischiano di dover pagare un costo eccessivo, con danni sulla produzione e sui margini. Basti pensare ai semiconduttori di dispositivi tecnologici, prodotti in Cina e necessari ai grandi brand statunitensi.    

L’ultimo esempio di “guerra commerciale” basata sui dazi riguarda la contrapposizione tra Pechino e l’Europa. A ottobre la Commissione Europea (sulla scia di una proposta di legge USA) ha avanzato l’istituzione di dazi sulle importazioni di veicoli elettrici a batteria dalla Cina. Il motivo: la prospettiva di produrre e vendere auto a costi estremamente bassi avrebbe penalizzato le case europee. La Cina ha però risposto con dazi su beni che i produttori europei ambiscono a vendere in Asia, come brandy, carne e auto di lusso. Una sorta di penalizzazione incrociata che ha portato all’apertura di un negoziato, ancora in corso.  

I dazi sull’e-commerce

C’è poi un altro tipo di guerra commerciale. Nuova, com’è relativamente nuovo il settore coinvolto: l’e-commerce.

Per evitare di rallentare la crescita, le barriere doganali sono state piuttosto morbide sulle piattaforme online, anche perché esse sono per propria essenza sovranazionali. La forte crescita di alcuni e-commerce cinesi sta però facendo cambiare orientamento.

Oggi, infatti, l’Unione Europea applica dazi a beni acquistati online dall’estero solo se il loro prezzo supera i 150 euro. Questo tetto si è trasformato in un indirizzo strategico: gli e-commerce di Pechino hanno puntato proprio su beni dai prezzi contenuti per evitare la tagliola dei dazi, un problema per le imprese europee e per le piattaforme online che operano in UE. Si sta quindi pensando di abbassare la soglia dei 150 euro, ma con il rischio, come sempre, di innescare reazioni i cui effetti non sono mai del tutto prevedibili.