Non più di due mesi fa, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha sottolineato dal palco dell’assemblea di Confindustria che “prima di ogni altro fattore, a muovere il progresso è il capitale sociale di cui un Paese dispone. Un capitale che non possiamo impoverire. È una responsabilità che interpella anche il mondo delle imprese: troppi giovani cercano lavoro all'estero, per la povertà delle offerte retributive disponibili”. Un messaggio forte e chiaro non solo al mondo imprenditoriale italiano, ma anche alle istituzioni e più in generale a tutto il Paese. Ma perché i giovani laureati fuggono all’estero? Cerchiamo di capirlo a partire dai dati ISTAT.
La grande fuga
La perdita di competitività a livello internazionale è palese, dal momento che i giovani italiani emigrano sempre più negli altri Paesi europei o in Gran Bretagna, che ha mantenuto molto appeal nonostante la Brexit. Secondo il report redatto da Fondazione Nord Est e dell’associazione Talented Italians in the UK, che ha elaborato i dati Eurostat, l’Italia ha perso 1,3 milioni di persone andate a lavorare e vivere all’estero negli ultimi 10 anni. Un fenomeno paragonabile a quanto succedeva negli anni ’50 del secolo scorso, quando però chi se ne andava dal nostro Paese aveva un basso livello di scolarizzazione, mentre oggi si stima che un emigrante su tre sia laureato.
Un viaggio di necessità per il lavoro
Trovare il primo impiego per i nostri giovani è come cercare l’acqua nel deserto e sono loro stessi a confermarlo. Secondo il Rapporto dell’Osservatorio su innovazione e digitale, presentato a Milano durante lo Young Innovators Business Forum, circa il 65% degli under 35 intervistati ritiene che il principale blocco nella ricerca del primo impiego sia la richiesta di esperienza minima, che per ovvi motivi i più giovani non hanno ancora potutomaturare. E ben 9 under 35 su 10 ritengono che la fuga dei cervelli sia il principale problema che hanno i giovani, ma che ha anche il Paese. Altri due limiti sono la scarsa propensione ad assumere delle aziende (54% delle risposte) e la troppa qualificazione dei laureati (39%).
Inoltre, ai giovani italiani serve anche qualcuno che faccia da tramite tra il mondo della formazione e quello del lavoro: secondo la loro visione è principalmente compito delle università (53%), poi dello Stato (51%) e infine delle aziende (40%), ma anche associazioni di categoria ed enti locali possono entrare nella partita.
Le misure per il rientro dei cervelli in Italia
Già 10 anni fa sono stati introdotti dei bonus fiscali per incentivare il rientro dei cervelli dall’estero. L’attuale Consiglio dei Ministri ha rivisto parzialmente le misure a supporto degli expat italiani, riducendo gli incentivi a partire dal 2024: sia i dipendenti sia i lavoratori autonomi che hanno trascorso almeno 3 anni all’estero accederanno, per un massimo di 5 anni, al regime fiscale agevolato con taglio delle tasse del 50% fino a 600mila euro di reddito. Ad oggi, questo incentivo permette un’estensione fino a 10 anni e nessun limite di reddito.,
Un intervento considerato necessario dal governo Meloni, dal momento che nel 2022 questi incentivi hanno pesato 674 milioni di euro sulle casse pubbliche per circa 15mila persone. In media, quindi, ogni professionista rientrato in Italia ha evitato di versare circa 45mila euro di tasse: una cifra molto importante, se teniamo conto che nel nostro Paese l’imposta netta IRPEF è in media di 5.452 euro.