L’Italia continua a essere il Paese dell’Unione Europea con il più alto numero di NEET, acronimo di Not in Education, Employment or Training: si tratta di quei giovani dai 15 ai 34 anni che non studiano, non lavorano e non stanno seguendo un percorso di formazione. Nel 2020 erano più di 3 milioni.
È questo uno dei principali indicatori del disagio lavorativo delle giovani generazioni italiane, alle prese con le diverse crisi che si sono susseguite nel corso degli anni. Una disfunzione evidente in un mercato in cui l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro non funziona, con aziende che cercano ma non trovano diversi profili professionali e giovani che faticano a trovare un impiego adatto alle loro competenze.
Chi sono i NEET?
L’ultimo studio sui NEET elaborato da ActionAid e CGIL, che fa riferimento al 2020, spiega che la quota maggiore di giovani inattivi si trova nel Sud Italia, dove sono il 39%, il doppio rispetto al Nord. Si registra anche una lieve differenza di genere: i NEET sono per il 56% donne, una prevalenza che resta invariata negli anni.
Inoltre, c’è una maggiore tendenza a cadere nella trappola NEET soprattutto tra i diplomati (32%) o tra quelli con un titolo di studio minore (16%). Solo il 13,2% dei NEET ha un titolo di laurea.
Il rapporto identifica quattro tipi di NEET:
- I giovanissimi, di età tra i 15 e i 18 anni (11,1%), che hanno lasciato la scuola, non hanno alcuna esperienza di lavoro e hanno un’istruzione molto bassa, di solito solo la licenza media.
- I giovani della fascia 20-24 anni (27,8%), anche loro senza alcuna esperienza lavorativa alle spalle, ma con un’istruzione superiore.
- Il terzo tipo copre la fascia dei 25-29enni (30,7%) che hanno perso il lavoro e spesso percepiscono un sussidio.
- Infine, ci sono quelli che il rapporto chiama “scoraggiati”: sono quelli tra i 30 e i 34 anni (30,4%) che non trovano lavoro e hanno bassi livelli di istruzione; molto spesso sono donne residenti in piccoli centri.
Il 61% dei NEET si trova senza un impiego a seguito della scadenza di un contratto a tempo determinato che non è stato rinnovato; invece, il 20,5% ha perso il lavoro prima della fine del contratto o è stato messo in mobilità.
La maggior parte dei NEET (66%), però, è scoraggiata e ha smesso del tutto di cercare un lavoro, mentre solo il 20%, pur non cercando un’occupazione, si dice disponibile a lavorare.
Giovani e lavoro: i dati 2021-2022
A settembre 2022, il tasso di disoccupazione giovanile è al 23,7%, ancora elevato rispetto al 7,8% totale, ma in miglioramento rispetto al 29,4% del pre-pandemia. Nonostante questo, spesso i giovani sono assunti con contratti a tempo determinato e con stipendi bassi.
I dati INPS dicono, infatti, che nel 2021 tra i giovani nella fascia 25-29 anni il reddito medio annuo supera di poco i 15mila euro, mentre nella fascia 30-34 non si arriva a 19mila euro. Si registra poi un picco negativo nella fascia 20-24, dove il guadagno medio è inferiore ai 10mila euro l’anno.
Il mancato incrocio tra domanda e offerta
Secondo il bollettino del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere e ANPAL, sulle previsioni di assunzione da parte delle imprese a novembre 2022 (382mila) il disallineamento tra domanda e offerta di lavoro cresce ancora: la difficoltà di reperimento di figure professionali interessa il 46,4% delle assunzioni, che equivalgono a oltre 177mila profili dei 382mila ricercati.
Dalla guida “Mestieri e Competenze” realizzata da Assolombarda in collaborazione con la Fondazione ADAPT, viene fuori che le imprese faticano a trovare le competenze di cui hanno bisogno. Da un lato, le trasformazioni in atto mutano velocemente i profili e le competenze richieste. Dall’altro, l’offerta didattica e l’orientamento delle istituzioni formative non riescono a stare al passo dei cambiamenti in corso. Basti pensare che l’Italia ha ancora solo il 24,5% di laureati STEM (ovvero in materie scientifico-tecnologiche) sul totale dei laureati, oltre dieci punti sotto il 36,8% della Germania.
Eppure la formazione rappresenta oggi tra le priorità delle giovani generazioni nella scelta dell’azienda per cui lavorare. La ricerca “Global Workforce of the Future” del Gruppo Adecco mette in evidenza come lo stipendio sia solo uno dei fattori che spinge a cambiare lavoro. Contano anche le opportunità di carriera, il benessere e la formazione.
In un momento di “grandi dimissioni”, quindi, avviare percorsi di formazione e riqualificazione per le aziende diventa importante non solo per incrementare la competitività ma anche per favorire la crescita professionale dei dipendenti e attrarre nuovi talenti, contenendo così anche il tasso di fuoriuscite.