Il Regno Unito è in recessione. E se molti Paesi, frenati dall'inflazione, dovranno fare i conti quest'anno con un rallentamento, Londra dovrebbe essere l'unica economia avanzata che chiuderà il 2023 con il PIL in calo. I problemi, quindi, vanno oltre i temi comuni a gran parte dell'Occidente. Come sempre, però, avere certezze è difficile, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che la recessione sia il risultato di una combinazione di fattori - tra i quali la Brexit.
Le stime disattese del FMI
Secondo il Fondo Monetario Internazionale, il PIL britannico dovrebbe diminuire dello 0,6%. Più che l'entità della recessione, preoccupa la direzione intrapresa dal Paese. Lo scorso ottobre, il FMI aveva infatti ipotizzato una crescita dello 0,3%. È esattamente il contrario di quello che è successo alla maggior parte delle economie avanzate, che negli stessi mesi hanno visto migliorare le stime. L'Italia, ad esempio, è passata da un'ipotesi di recessione (-0,2%) a una di crescita, seppur debole (+0,6%). Ma l'eccezione non è il nostro Paese, bensì il Regno Unito: il Prodotto Interno Lordo delle economie avanzate aumenterà dell'1,2%.
Le scelte di politica economica
Nel 2022, il Fondo Monetario Internazionale aveva fortemente criticato la manovra economica varata dall'allora Premier Liz Truss, caratterizzata da una riduzione delle tasse per i redditi alti e capace di innescare un pesante calo della sterlina. Truss aveva prima rimosso il responsabile dell'Economia, poi si era dimessa, cedendo il posto a Rishi Sunak. Il nuovo Premier ha impresso quella che da molti è stata definita “una inversione a U”, con una legge di bilancio fatta di tagli alla spesa pubblica e aumento della pressione fiscale.
La zoppicante politica economica si è quindi sommata ad altri fattori: inflazione, caro energia, sterlina debole, imprese e famiglie in difficoltà. A questi si aggiungono le prime possibili conseguenze negative della Brexit.
Cosa c'entra la Brexit con la recessione del Regno Unito?
Secondo un'analisi di Bloomberg, la Brexit costerebbe 100 miliardi di sterline l'anno. L'uscita dall'UE avrebbe quindi avuto un impatto pari al 4% sull'economia britannica. L'addio all'Unione, hanno sottolineato gli economisti Ana Andrade e Dan Hanson, “è stato un atto di autolesionismo economico”, con un impatto negativo persino più rapido del previsto.
Nel periodo di transizione, molti investimenti sono stati bloccati in attesa di avere un quadro più chiaro. Sono ripartiti, ma Londra ha comunque accusato il colpo. Secondo Jonathan Haskel, membro del comitato di politica monetaria della Bank of England, il rallentamento degli investimenti è costato, dal referendum del 2016 a oggi, 29 miliardi di sterline, ossia circa mille sterline per ogni famiglia. La stessa Bank of England, confrontando le proiezioni degli investimenti prima e dopo la Brexit, ha affermato che, nel 2026, ci sarà una differenza (in negativo) pari al 3,2% del PIL.
Che la Brexit non sia stata una buona idea inizia a pensarlo anche la popolazione che, tramite il referendum, aveva sancito l'addio. Lo confermano due sondaggi di Savanta Poll pubblicati dal quotidiano The Independent. Due terzi dei britannici pensa che lasciare l'UE abbia peggiorato la situazione economica, mentre solo il 13% crede che le cose siano migliorate. Non solo: due cittadini del Regno Unito su tre gradirebbero votare di nuovo. Il 22% vorrebbe farlo subito, un altro 24% nei prossimi cinque anni e l'11% tra sei-dieci anni. Solo un intervistato su quattro si opporrebbe.
Lavoratori del NHS in piazza
Difficile, per non dire impossibile, pensare a un referendum. È evidente però una crescita del malcontento, che potrebbe saldarsi con la recessione, la complicata manovra del governo e un potere d'acquisto in calo. Una situazione tutt'altro che rosea, che ha già fatto intravedere possibili conseguenze: a febbraio i sindacati hanno indetto il più grande sciopero nella storia del Sistema Sanitario Nazionale (National Health System – NHS). Infermieri, autisti di ambulanze e personale paramedico sono scesi in piazza per chiedere un deciso aumento salariale, che, però, per il governo non è fattibile.