Chi è digiuno di finanza forse avrà sentito parlare di plusvalenze e minusvalenze per questioni legate al calciomercato. Si tratta in realtà di due concetti che non riguardano solo i contratti sportivi ma qualsiasi operazione di acquisto e vendita di beni, materiali e immateriali.
Cos’è una plusvalenza?
La plusvalenza (o capital gain) è un guadagno in conto capitale. In sostanza, è la differenza positiva tra il prezzo di vendita e quello di acquisto di uno strumento finanziario, come azioni, obbligazioni, opzioni.
Ipotizziamo che un investitore acquisti azioni di una società quotata per 10.000 euro. Nel giro di tre anni, il titolo si apprezza del 20%, portando il valore complessivo delle azioni in portafoglio a 12.000 euro. L’investitore decide allora che i tempi sono maturi per vendere: la plusvalenza generata sarà di 2.000 euro, senza contare commissioni e imposte. E qui occorre una specifica: la plusvalenza non corrisponde al guadagno netto dell’intera operazione finanziaria.
L’incasso al momento della vendita, infatti, non è l’unica potenziale fonte di profitto: nel corso dei tre anni in cui è stato in possesso delle azioni, l’investitore potrebbe aver incassato dei dividendi o, nel caso delle obbligazioni, delle cedole. Va poi ricordato che il capital gain ha una tassazione precisa, che sulla maggior parte dei prodotti finanziari – fatta eccezione per i titoli di Stato, che hanno un’imposta del 12,5% – è del 26%. Al netto delle commissioni, quindi, l’investitore metterebbe in tasca 1.480 euro.
Cos’è una minusvalenza?
La minusvalenza (o capital loss) è, in un certo senso, l’opposto della plusvalenza. È la differenza negativa tra il prezzo di vendita e quello di acquisto. In pratica, l’investitore registra una perdita perché lo strumento finanziario ha perso valore nel tempo.
L’esempio può essere speculare a quello fatto sulla plusvalenza. Un investitore acquista azioni per 10.000 euro. Il pacchetto, però, perde il 20% del valore. Al momento della vendita, l’investitore incassa quindi 8.000 euro, registrando una minusvalenza di 2.000 euro. Anche in questo caso, va specificato che non si tratta di una perdita secca, visto che, nel periodo in cui ha detenuto il titolo, è possibile si siano incassati dividendi.
Ma come viene trattata la minusvalenza a livello fiscale? Chiaramente, non si può tassare una perdita. Ma l’ordinamento italiano offre un’opportunità ulteriore: compensarla con le plusvalenze ottenute da altri investimenti. In sostanza, la minusvalenza si trasforma in un credito fiscale.
Se l’investitore che ha registrato un capital loss di 2.000 euro ottenesse, da altre operazioni successive, una plusvalenza di 5.000 euro, potrebbe detrarre la minusvalenza e pagare l’imposta del 26% solo su 3.000 euro. Cioè 780 euro anziché 1.300.
Si tratta però di un vantaggio fiscale a tempo: si può sfruttare nell’anno in cui si è registrata la minusvalenza e nei quattro anni successivi. Ecco perché, anche nel caso in cui non si avesse l’esigenza di vendere, potrebbe essere utile farlo, per generare plusvalenza coperte da un vantaggio fiscale che altrimenti verrebbe perso.